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Fonte: Vigne, Vini e Qualità
Articolo a cura di Alessandra Biondi Bartolini

 

Un progetto per fare impresa in una regione difficile come quella della bassa Maremma e per sperimentare allo stesso tempo un nuovo modello viticolo basato sulla sostenibilità, il rispetto per l'ambiente, lo sviluppo durevole del vigneto.

Fattoria La Maliosa, a pochi chilometri da Saturnia (Grosseto), è un luogo dove la complessa e talvolta contraddittoria definizione di vino naturale incontra il pragmatismo delle spiegazione tecnica e scientifica.

 

L'abbiamo visitata accompagnati dalla proprietaria e ideatrice del progetto Antonella Manuli e da Lorenzo Godilo, nome importante della ricerca viticola italiana, che proprio a La Maliosa ha elaborato e sperimentato il suo metodo di vitivinicoltura naturale.

L'avvio del progetto

È Antonella Manuli, imprenditrice milanese da sempre attenta alla green economy, con esperienza di management in settori diversi e in Maremma dal 1990, a raccontarci la storia de La Maliosa: "Quando ho cominciato a conoscere bene questo territorio, ho capito che si prestava benissimo a un progetto agricolo con fortissima vocazione di sostenibilità ambientale ed è cominciata la mia ricerca del luogo ideale, dove il bosco, i seminativi, l'olivo e la vite coesistessero già.


Il primo nucleo di 20 ettari aveva queste caratteristiche, con presenza di olivi secolari e una vigna vecchia di circa 60 anni, abbandonata da non meno di dieci e con al suo interno tutte le varietà più tradizionali per quest'area, dal Procanico al Ciliegiolo".

 

La vigna viene recuperata e rimessa in produzione e le piante sono poi utilizzate come nucleo di conservazione del germoplasma per il prelievo del materiale vegetale negli impianti che saranno realizzati negli anni successivi con Procanico, Ansonica, Sangiovese, Barbera, Ciliegiolo e Cannonau grigio.

 

Dal quel primo nucleo, negli anni successivi La Maliosa si estende, acquisendo terreni e impiantando vigneti, che oggi sono arrivati a coprire una superficie di otto ettari, dei quali la metà in produzione, su un totale di circa 165 ettari, la maggior parte a prato e seminativo, seguito dal bosco e dall'oliveto.

 

Al corpo principale nel comune di Manciano si aggiungono poi 2 ettari nella zona di Pitigliano, vicinissima geograficamente ma completamente diversa dal punto di vista geologico e microclimatico, con terreni vulcanici freschi e meno siccitoisi, più adatti alle varietà a bacca bianca come il Procanico.

 

La separazione tra i due ambienti è netta e sorprendente ed è segnata dal letto del fiume Fiora: terreni vulcanici a Est e suoli alluvionali antichi su una base calcarea di origine marina, sassosi e molto più poveri a Ovest.



Agricoltura conservativa per recuperare il terreno

È proprio al terreno, sfruttato da secoli di coltivazioni depauperanti e asportato da fenomeni erosivi e per questo particolarmente povero non solo dal punto di vista minerale ma anche in sostanza organica, che Lorenzo Corino rivolge fin da subito la sua attenzione, applicando tecniche di agricoltura conservativa.

 

"Il metodo applicato - spiega l'agronomo piemontese - guarda principalmente al suolo e alla sua fertilità e biodiversità.

 

Lo scopo è quello di arricchirlo e proteggerlo quanto più possibile mantenendo la copertura vegetale con leguminose e graminacee spontanee in giusto rapporto, e distribuendo sulla fila uno strato pacciamante di fieno prodotto in azienda che arricchisce il suolo in sostanza organica e che permette di trattenere l'umidità in un ambiente che in alcune annate è estremamente siccitoso: tra l'ottobre 2016 e lo stesso mese del 2017 sono caduti 300 mm di pioggia".

 

Qualsiasi lavorazione del terreno viene evitata per preservare dalla mineralizzazione lo strato più superficiale e ricco in sostanza organica e per ridurre il rischio di erosione.

 

Nel tempo l'esperienza ha portato a ridurre anche le lavorazioni di scasso al momento dell'impianto dei vigneti.


"Nei vigneti impiantati nel 2014 sul Monte Cavallo (un'altura che raggiunge i 350 m slm, n.d.r.) seguendo un disegno a spicchi che asseconda le curve di livello, abbiamo eseguito uno scasso a 80 cm con un aratro puntatore", racconta Antonella Manuli "mentre negli ultimi impianti del 2016-2017, sulla scorta di tutte le esperienze precedenti, ci siamo limitati a pacciamare il terreno alcuni mesi prima della messa a dimora delle barbatelle senza eseguire alcuno scasso, e così dopo anni di studi e prove siamo arrivati alla chiusura del cerchio del modello di impianto del vigneto".


Un modello sviluppato in tutti i suoi aspetti per adattarsi a un ambiente estremo e nel quale tutte le scelte sono di un'agronomia basata sull'osservazione dell'ambiente e sul rispetto dei suoi equilibri.

 

Per migliorare l'adattamento delle barbatelle alla scarsità idrica, ad esempio, l'azienda ha scelto negli ultimi impianti di mettere a dimora i portinnesti (Paulsen 1103, 77 e 775 oltre che Rupestris e 110 Richter), attendere che essi si siano ben sviluppati e abbiano approfondito l'apparato radicale e solo in un secondo momento, intorno al terzo anno, innestarli in campo con le varietà desiderate.

La difesa

"Per contenere le malattie occorre impostare strategie agronomiche adatte, che permettano di convivere con i patogeni tramite alternative compatibili con la salute dell'ambiente e delle comunità", spiega Corino nel descrivere la scelta della forma di allevamento ad alberello, nella quale la vicinanza dei grappoli al suolo, dove sono minori l'escursione termica e il movimento dell'aria, riducono il rischio di oidio, essendo invece la pressione della peronospora molto ridotta dall'ambiente caldo e secco e dalla presenza del cotico erboso, che aiuta a contenere il rischio di insorgenza dell'infezione primaria, rispetto a quanto può avvenire nei terreni lavorati. La difesa applicata è quella con Rame e Zolfo - prevista dal regime biologico - per ridurre le dosi dei quali si stanno valutando anche altri preparativi alternativi, come i macerati di origine vegetale o la roccia vulcanica.



Biodiversità e uso del suolo

Mantenendo il suolo in salute e riducendo gli interventi e le lavorazioni che ne possono perturbare gli equilibri, si ottiene anche il risultato di un arricchimento in biodiversità microbica e animale, a vantaggio dell'attività radicale e dello stato fisiologico della pianta in generale.

 

Nel 2014 La Maliosa ha realizzato in collaborazione con il Crea Apb (Centro di ricerca per l'agrobiologia e la pedologia) di Firenze uno studio (Gagnarli et al., 2014) sull'effetto del vigneto e in modo particolare del passaggio di destinazione d'uso da prato polifita a vigneto, sull'ecosistema rappresentato dagli organismi come i micro-artropodi più adattati al suolo, detti anche forme euedafiche.

 

I risultati hanno messo in evidenza che la variazione di uso del suolo, a distanza di soltanto un anno dall'impianto, determina una minore abbondanza in organismi totali ma, grazie anche ai metodi colturali adottati, non influisce sulla struttura delle comunità animali, significativamente ricche in forme euedafiche, tra le quali i collemboli e gli acari, considerati importanti indicatori di biodiversità.

 

I vigneti de La Maliosa, sia quelli vecchi sia quelli di nuovo impianto, sono risultati di conseguenza caratterizzati da elevati valori negli indici di Qualità Biologica dei Suoli (Qbg),


Occorre un nuovo modello

La Maliosa è il laboratorio dove Antonella Manuli e Lorenzo Corino hanno sperimentato un nuovo metodo di viticoltura sostenibile. Un metodo più oneroso inizialmente per l'imprenditore che lo pratica in quanto applica un bassissimo livello di meccanizzazione, richiede tempi più lunghi per l'entrata in produzione dei vigneti e un maggiore impiego di manodopera, ma il cui ritorno è quello di realizzare un'agricoltura sostenibile e soprattutto durevole, nella quale il vigneto ha una prospettiva di vita molto superiore ai pochi decenni ai quali ci hanno abituati i modelli viticoli più diffusi.


"Per ripristinare un suolo degradato e riportarlo in condizioni produttive sostenibili anche dal punto di vista economico - spiega - ci vogliono dai cinque ai dieci anni e per portare in produzione un vigneto stiamo impiegando fino a cinque anni. Questo tuttavia per noi non rappresenta un problema, in quanto il nostro obiettivo è dr avere vigneti che producano in modo equilibrato anche 80 o 90 anni".

 

Ma non è tutto qui. Negli intenti di Lorenzo Corino c'è anche quella che potremmo definire una funzione didattica o sociale, la volontà cioè di dimostrare che una viticoltura diversa è possibile e che una nuova visione non può che ruotare intorno alla valorizzazione del suolo, soprattutto quando ci sì trova lavorare in ambienti estremi.

 

"Il problema di sviluppare un modello di viticoltura nuovo, tuttavia - osserva Corino - è anche politico, perché in questo momento il valore della conservazione di beni comuni come il suolo, il paesaggio o la bioidiversità è completamente a carico del singolo imprenditore, che non riceve alcun riconoscimento per quello che fa, anche per stimolare a un cambiamento che sempre più appare necessario".

 

Quello che occorre quindi è che anche a livello istituzionale, nazionale ed europeo, venga finalmente riconosciuto il ruolo che gli agricoltori hanno nella conservazione del territorio, un ruolo che i modelli agricoli attuali già riconosciuti, dal convenzionale al biologico, non contemplano.



OLIVI SECOLARI E VARIETÀ SENZA NOME

L'attenzionie alla cciniservazione dell'ambiente e del suolo si estende anche alla produzione olivicola, ottenuta negli appezzamenti storici con olivi di 80-100 anni e in quelli di impianto più recente. "La protezione che offre la collina alta e ripida di Montecavallo consente di avere un clima che rifugge da temperature minime eccessivamente basse e ciò permette di rendere ospitale questa zona a molte varietà di olivi, anche quelle più sensibili ai freddi", spiega l'agronorno Luigi Walter Antonelli, che affianca l'azienda per l'olivicoltura. "A testimonianza di questa vocazionalità si nota come particolare importante e distintivo l'integrità del fusto degli olivi, che conservano ancora il tronco originario, il che vuol dire che anche durante le gelate storiche (come il 1956 o il 1985, che provocarono enormi danni all'olivicoltura italiana) su queste piante non ci sono stati mai danni importanti da freddo.

 

Da un microclima così favorevole deriva la notevole diversità biologica degli oliveti storici della Fattoria, dove ci sono varietà tipiche toscane come Frantoio, Leccio del Corno, Leccino, Moraiolo, Pendolino, Canino, varietà tipica della bassa Maremma, e anche due varietà (Maliosa 1 e Maliosa 2) identificate tramite analisi morfologica e del Dna come varietà nuove e non riconducibili ad alcuna di quelle esistenti fino ad ora nel patrimonio olivicolo nazionale.

 

Un nuovo modello di sostenibilità

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