Fonte: rivista "Vigne, Vini e Qualità"
articolo a cura di: Giovanni Colugnati - Giuliana Cattarossi
La biodiversità di un vigneto è definita come l'insieme di tutte le forme di vita presenti sulla superficie e nel suolo quali piante, animali, microrganismi, fino ai geni delle varie entità viventi. Il suolo si caratterizza per una interazione intima e multipla tra la porzione minerale, organica, gassosa e gli organismi viventi.
La biodiversità condiziona la capacità di un suolo di resistere ai cambiamenti rapidi che avvengono nelle diverse condizioni ambientali e la, possibilità di raggiungere lo stato di equilibrio, alla base del concetto di resilienza, del quale finalmente è stato riconosciuto il ruolo nell'ambito della nuova programmazione dell'UE (PSR 2014-20, Misura 8). La resilienza, proprietà degli ecosistemi naturali, è il risultato di alcune condizioni quali la complessità dell'organizzazione funzionale - che garantisce la solidità del sistema - la diversità dei partecipanti (vegetali, fauna, risorse alimentari), gli stock nutrizionali e le risorse sistemiche.
In questa logica, il suolo va inteso come un reattore biologico (Scienza, 2013) dove la carica batterica, i funghi e le micorrize rappresentano gli attori della degradazione e dell'utilizzo funzionale della sostanza organica al fine di mettere a disposizione dell'apparato radicale gli elementi naturali che sono necessari al suo sviluppo.
Per queste ragioni, le modalità di gestione del suolo hanno una significativa influenza sui risultati vegeto-produttivi ed economici del vigneto in quanto
influenzano le disponibilità idriche per la pianta, la nutrizione minerale, le strategie della lotta antiparassitaria e in generale il livello di biodiversità, aspetto questo troppo spesso sottostimato fino a un recente passato ma che sta assumendo finalmente crescente importanza, nella valutazione della sostenibilità, delle produzioni viticole.
L'agrobiodiversità
Per poter valutare gli effetti della cosiddetta intensificazione ecologica dei vigneti sono necessari approcci scientifico-metabolici interdisciplinari, in grado di chiarire l'impatto che hanno forme di viticoltura alternativa sulla biodiversità e sulla qualità della produzione, quando troppo spesso si leggono affermazioni sulla loro bontà, senza peraltro il suffragio di risultati sperimentali.
L'ultima rivoluzione agricola, basata su vitigni selezionati, sull'uso di concimi minerali e antiparassitari di sintesi, ha prodotto una sorta di industrializzazione della viticoltura e la biodiversità nel vigneto è stata vista come un fattore limitante da eliminare.
La viticoltura e la natura rappresentavano allora due spazi ben delimitati, gestiti con regole profondamente diverse: lo spazio viticolo, destinato alla produzione, e quello naturale da preservare.
Al contrario, la biodiversità in viticoltura svolge un ruolo essenziale per la valorizzazione dei diversi ambienti di coltivazione e per le diverse esigenze dei modelli di consumo, nonostante l'intensificazione dei processi produttivi; si manifesta però soprattutto nelle scelte varietali, mentre è sostanzialmente trascurato l'aspetto relativo all'ecosistema dove la vite è coltivata, il suolo del vigneto e il suo intorno naturale (Colugnati, et al., 2013).
In quest'ottica appare quindi necessario superare la visione vitigno-centrica del vigneto per proteggere e valorizzare la biodiversità dell'ecosistema viticolo, integrando e facendo convergere le discipline e le conoscenze agronomiche con quelle ecologiche, per sviluppare un nuovo concetto di agro-biodiversità che inglobi le popolazioni dei vitigni coltivati con tutte le specie viventi nel vigneto, siano esse animali o vegetali o microbiche, aggressive o utili, telluriche o aeree. Il tema trasversale comune a tutte le forme di coltivazioni erbacee e arboree è la copertura del suolo, come espressione di una sinergia tra la gestione della coltura principale e quella del cotico, al fine di ridurre l'effetto competitivo della flora avventizia con la non-lavorazione, l'uso del mulch, l'impiego di leguminose azoto-fissatrici, l'arricchimento sistematico di sostanza organica, la lotta biologica.
Viticolture a confronto
Vicino a una viticoltura convenzionale, che massimizza il rendimento dei fattori produttivi impiegati, anche attraverso un elevato impiego della meccanizzazione, a partire dagli anni Settanta si è sviluppata, quasi in contrapposizione, la viticoltura biologica, che rifiuta l'impiego dei prodotti di sintesi e si affida soprattutto al mantenimento della fertilità fisico-chimica dei suoli per garantire la sopravvivenza della coltura della vite nel tempo.
Il vero salto di qualità nella gestione del vigneto è però rappresentato dalla viticoltura durevole (Scienza, 2013) che rappresenta quella forma di produzione che risponde ai bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di rispondere ai loro e si basa, sostanzialmente, sul rispetto dei limiti ecologici e ambientali di ogni terroir e sulle potenzialità economiche e sociali dei viticoltori di quel territorio. Questo tipo di viticoltura si propone obiettivi molto più ambiziosi dei precedenti: limitare l'effetto serra, ridurre la degradazione del suolo, limitare la dipendenza energetica fossile, ridurre i rifiuti e moderare l'uso degli antiparassitari. In sostanza è una forma di viticoltura integrata che porta alla creazione di un sistema produttivo con una grande autonomia ecologica.
Il panorama degli scenari intermedi è ovviamente molto ampio ma, al netto delle posizioni ideologiche (biologico e biodinamico), la principale discriminante tra le due viticolture consiste nelle modalità di gestione del suolo e soprattutto nelle implicazioni che questa pratica ha in tutte le altre tecniche colturali applicate nel vigneto.
Comunque la si pensi, però, la tendenza in atto è verso un loro progressivo riavvicinamento: la prima è costretta a rivedere i propri processi produttivi per diventare più durevole, la seconda dovrà investire maggiormente sul suo patrimonio biologico come fattore di adattamento futuro. La definizione di viticoltura ecologicamente intensiva potrebbe nei prossimi anni avere lo stesso impatto nell'opinione pubblica che ebbe negli anni Sessanta la rivoluzione verde, che ha permesso soprattutto nel settore cerealicolo di ottenere rese produttive spettacolari attraverso i progressi della genetica e dell'impiego di concimi, irrigazione e prodotti fitosanitari: prende lo spunto da quella che negli anni Novanta venne definita la rivoluzione doppiamente verde o evergreen (Griffon, 1996), la quale aveva come caratteristica principale quella di inserirsi in un ecosistema di produzione complesso dove le attività produttive fanno sistema.
MICRORGANISMI E TECNICHE COLTURALILe comunità microbiologiche presentano una grande capacità di adattamento ai cambiamenti climatici che si manifestano nelle variazioni termiche e di umidità. Molto meno plastici appaiono la microfauna e i funghi, che inoltre sono fortemente condizionati dalle pratiche colturali: tra queste, le più impattanti (in senso positivo e negativo), sono la copertura vegetale, le lavorazioni al suolo, il drenaggio e l'irrigazione, che agiscono soprattutto sulla disponibilità di carbonio. |
Scenari futuri
Il ricorso ai soli concimi minerali e agli ammendanti organici, utilizzati per intensificare la produttività, non ha risolto i problemi di fertilità biologica e strutturale dei suoli dei vigneti. È quindi necessario fare ricorso alla cosiddetta biodiversità pianificata o sito-specifica, che si sviluppa nelle associazioni tra specie legnose (vite) ed erbacee (cotico erboso) con modalità spaziali, temporali
e di utilizzo molto diverse e contemporaneamente con nuovi criteri di gestione quali sovesci (Colugnati et al., 2014), lavorazioni alternate ecc., ancora poco oppure solo parzialmente analizzate.
Queste associazioni vegetali (anche nelle aree non direttamente interessate alla coltura) hanno obiettivi multipli e assumono ruoli prevalenti a seconda delle problematiche che devono risolvere: proteggere il suolo dall'erosione o dal calpestamento, catturare azoto dall'aria, respingere i bioagressori o attivare gli ausiliari, ridurre le emissioni di gas-serra ecc.
Nella prospettiva di un'agricoltura sostenibile, in cui situazioni di semi-naturalità (siepi, strisce di prato di varia natura, sponde naturaliformi di fossi e canali, piccole zone umide, aree boschive ristrette, ecc.) vengono recuperate a costituire, negli ambiti coltivati, un diffuso reticolo di ambienti ad elevato livello di complessità, anche i vigneti collinari o in aree residuali possono rappresentare un elemento importante per il mantenimento della biodiversità agro-ecosistemica e il miglioramento complessivo del territorio nel suo insieme.
Piccole ma significative esperienze sono state proposte al fine di valutare, selezionare e recuperare situazioni fioristico-vegetazionali in cenosi di prossimità ad insediamenti viticoli finalizzate a promuovere processi spontanei di insediamenti di cotici erbacei ad elevato grado di naturalità (Colugnati et al., 1997). Per uno sviluppo adeguato della microfauna è auspicabile una composizione fioristica elevata e costituita da piante perenni.
Inoltre la loro continuità alimentare può essere garantita dalla presenza nelle vicinanze del vigneto di siepi, scarpate e piccoli boschi.
A questo riguardo l'aspetto più importante è quello di favorire la presenza costante di piante in fioritura, in quanto sono i nettari e il polline le fonti alimentari degli insetti antagonisti: l'assenza di 7-10 giorni di fiori può essere fatale per alcuni parassitoidi.
IL CASO DELLA COLLINASi considerino gli ecosistemi collinari, dove è localizzata una porzione importante della nostra viticoltura e dove il diverso grado di praticabilità degli insediamenti pone all'attenzione degli operatori tutta una serie di problematiche tecniche, logistiche ed economiche: proporre soluzioni eco-compatibili (e praticabili) di queste tematiche in terroir fragili (ma unici) quali quelli declivi o residuali appare strategico, pena lo sconvolgimento dell'equilibrio pedologico e il progressivo depauperamento di tanta parte della nostra viticoltura. |
Contro la stanchezza del terreno
Tali modalità operative, fra l'altro, hanno evidenziato un profondo cambiamento nei rapporti tra la vite e alcuni aspetti negativi legati alla condizione di monocoltura del vigneto, in un'ottica di protezione integrata nei confronti degli artropodi fitofagi, controllati in modo molto efficiente dall'entomofauna infeudata alle erbe infestanti: infatti, alcuni indici di biodiversità quali la presenza di emitteri e di eterotteri hanno mostrato che i cotici prolungati garantiscono una maggiore ricchezza di specie ben strutturate.
Anche gli antagonismi vegetali (allelopatia) fanno parte del ventaglio delle strategie ecosostenibili di possibile utilizzazione e di particolare efficacia in situazioni specifiche, ad esempio nelle situazioni di ristoppio stretto dei vigneti (estirpo-reimpianto), quando sovente vengono segnalati fenomeni di sviluppo stentato delle barbatelle, con manifestazioni spesso asintomatiche, riferibili genericamente a stanchezza del terreno. Le cause sono molto diverse e tra queste hanno importanza crescente la diffusione di nematodi, di funghi tellurici, di insetti (es. elateridi) e di altri organismi dannosi. In questi casi il ricorso alle cosiddette piante biocide, crucifere dei generi Erica e Brassica, che producono sostanze specifiche (glucosinolati) che liberano composti isotiocianati e nitrili, attivi su funghi e nematodi: l'azione di questi composti non si manifesta solamente con la pacciamatura e il leggero interramento della massa vegetale, ma anche attraverso le radici che rimangono nel suolo.